Dio “odora di pecora”, perché ama il suo gregge
(Atti 13,14.43-52; Apocalisse 7,9.14-17; Giovanni 10,27-30)
Ascoltiamo il Vangelo:
“In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola»”.
Una delle forme più nobili per relazionarsi in modo corretto e redditizio è il dialogo. Esso fa parte delle capacità e delle caratteristiche tipiche del genere umano. La relazione dialogica si manifesta in moti modi: parole, gesti, sensazioni, mimiche. Il dialogo presuppone delle regole perché sia celebrato in modo conforme e confortevole per la mutua edificazione. L’educazione dialogica molto spesso manca nel nostro relazionarci perché siamo viziati e abitati più dal desiderio di rispondere che di capire. Difatti, molte volte, si ascolta per rispondere e non per capire. Addirittura ci si dimentica di ascoltare anche se stessi. Si, un vero dialogo necessita di ascolto attento, premuroso e generoso, perché, solo capendo l’altro, potrò relazionarmi in modo soddisfacente e proficuo.
Nel vangelo Gesù si presenta come pastore che dialoga con le sue pecore e di esse afferma che ascoltano la sua voce. Quando noi ascoltiamo attentamente? Quando chi parla ci nutre, ci edifica, ci attrae, quando parla al nostro cuore, scende in profondità e non si perde in parole adulatorie, ricche di apparenza, ma povere di sostanza, vuote, senz’anima. Mai un figlio ascolterà dalla propria mamma parole prive di senso in esse c’è un calore, una carezza, un respiro che solo lei potrà dare. Questo è il modo col quale Dio si relaziona con noi. Parole che attraggono, calamitano, parole che creano, che infondono vita, forza, che sanno dipingere e scolpire la speranza, che fanno fiorire nuove primavere. Parole di consolazione perché ricche di misericordia.
Gesù afferma che conosce le sue pecore, significa che vive in intimità con esse, condivide il loro spazio, la loro vita, è compromesso con le loro fragilità e le soccorre nelle loro necessità. Odora di pecora. Perciò esse si fidano, si abbandonano, seguono la sua voce. Non è quella di un estraneo, ma di uno conosciuto perché incontrato. Così Dio s’incontra continuamente con le nostre situazioni, con le nostre storie.
La presenza del pastore in mezzo alle pecore è garanzia di protezione, oltre che di condivisione estrema, è il segno della premura e della tenerezza, garanzia di conservazione e preservazione. Siamo protetti da Dio, la nostra vita non è allo sbando, non è randomizzata, ma ha una meta, uno scopo, una storia. Non si nutre di anonimato ma di protagonismo sano e finalizzato. Siamo custoditi dall’amore di Dio, come un tesoro nel forziere. Noi siamo i preziosi e il cuore di Dio è lo scrigno. Ognuno di noi è prezioso ai suoi occhi. E Gesù è posto a protezione di questo tesoro: il cuore di Dio abitato da ogni uomo. “Nessuno può strapparle dalla mano del Padre”.
Non importa se lo meritiamo o meno, Dio ci ama a prescindere, perché egli non ama per interesse o tornaconto ma, liberamente, gratuitamente, a fondo perduto. Perché lui, in Gesù, è un pastore che odora di pecora perché conosce, ama, serve, conduce, protegge il suo gregge. E se siamo nelle mai di Dio, siamo in buone mani, come un figlio aggrappato alla mamma, non teme nulla.