Non temo la morte per amore della vita.
di Giuseppe Gravante
At 10, 34°.37-43; Col 3, 1-4 (1Cor 5, 6b-8); Gv 20, 1-9
Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo.
Il culmine dell’esperienza evangelica si può esprimere attraverso il correre disperato e la “vista tesa” del discepolo amato: «e vide e credette» (Gv 20, 8). Giovanni, utilizzando una formula suggestiva per indicare la “domenica” («Il primo giorno della settimana»), annuncia l’inizio luminoso della nuova creazione: è proprio qui, infatti, che irrompe la risurrezione di Gesù. Tuttavia, nonostante ciò, la fede dei protagonisti è ancora flebile e sfibrata, la luce brilla ma le sopracciglia ancora aggrottate e gli occhi avvolti dalle tenebre indicano che non c’è fede nella risurrezione.
Tutti sono coinvolti! Corrono, il cammino di ricerca è affannoso e sconvolto e la prima causa di ciò è una notizia dirompente: il “cadavere” non c’è più. Maria si reca al sepolcro animata da vero affetto per Gesù, la sua è una devozione sincera, ha visto morire il maestro, ha visto dove l’hanno sepolto: il suo è un orizzonte ancora oppresso dalla morte. Giungendo allora al sepolcro, non è capace di andare oltre quella pietra, oltre quel sigillo a una vita conclusa; vedendola ribaltata, però, corre dai discepoli recando un annuncio di tristezza e sgomento, segno del suo credere ancora incerto: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!» (Gv 20, 2). Per lei l’assenza è un furto!
Anche Pietro e il discepolo che Gesù amava corrono, si protendono in una corsa senza gioia, turbata da un brutto presentimento; devono vedere, ma anche per loro è ancora buio. Giunge il discepolo amato e «vide i teli posati» (Gv 20, 5), poi giunge Pietro «e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte» (Gv 20, 6-7). I due “vedono”, Pietro, addirittura, “osserva”; ma, alla fine, constatano solo quelle tracce evidenti di morte.
Il racconto sembra essere fin qui un trionfo della morte, un lutto senza speranza. I segni che Giovanni elenca hanno una chiara funzione: nessun ladro si darebbe cura di svestire il cadavere che vuole trafugare. Il corpo di Gesù non è stato rubato; ma, allora, che ne è stato? I segni sono in se stessi sempre muti. Anche le parole scritte sono segni, ma se non si conosce l’alfabeto rimangono solo macchie su un foglio. Quando finalmente entra, Giovanni annota il salto: «e vide e credette» (Gv 20, 8). Forse meglio: e vide e “cominciò a credere”. Solo così, come l’indizio di una fede incipiente, si comprende perché Giovanni commenti: «Non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20, 9).
I segni della risurrezione, dunque, appaiono come segni muti e anche piuttosto fragili; se questi non vengono colti alla luce della Scrittura, rimangono incomprensibili e sterili. Giovanni, entrando nel sepolcro, comincia un nuovo percorso di vita: fare esperienza dell’amore, aprirsi a una relazione con Dio.
I segni di morte, così, diventano segni di vita; non narrano un’assenza, ma il trionfo della vita. Risurrezione come vita che frantuma la morte, risurrezione come vita che pretende per sé la pienezza: è l’amore per la vita che giustifica la croce e la morte del maestro. Vivere, dunque, non significa solo essere biologicamente attivi. La Pasqua in questa ottica, è realmente celebrata quando ci permette di riacquistare il gusto della vita stessa; quando, in virtù di essa, si abbandona il cedimento agli strali della morte e a un vivere ottuso. La Pasqua è degnamente celebrata quando la vita diventa prassi di risurrezione.