XXIII Domenica Tempo Ordinario
Nel mare tempestoso dell’indifferenza occorre diventare Isole di fraterno approdo
(Isaia 35,4-7; Giacomo 2,1-5; Marco 7,31-37)
Ascoltiamo il Vangelo:
“In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
C’è una costante nel racconto dei miracoli o negli interventi di Gesù in favore di qualcuno. Se chi deve ricevere un beneficio non ce la fa ad arrivare presso di lui, gli viene portato. Accompagnare le povertà e le necessita degli altri significa diventare guide, “mezzi di trasporto”, per favorire l’approccio. Così è stato per Pietro che fu accompagnato dal fratello Andrea presso Gesù, così per il paralitico calato dal tetto, altrettanto per molti malati impediti a presentarsi da soli.
Gesù forza attrattiva verso cui arrivare, tendere ed approdare. Proprio come la luce che attira a sé le foglie di una pianta o i fiori che si dischiudono alla luce del sole o un albero che si innalza per nutrirsi dei raggi che lo investono.
Portano a Gesù un sordomuto. Difficile rapportarsi con lui, non sente e non può rispondere. Gesù lo porta in disparte. Si dona solo a lui. Parlano con i gesti: imposizione delle mani, tocco degli orecchi e, da ultimo, il tocco della lingua con la saliva. Intimità vera, profonda, quasi scandalosa. E poi il grido “effatà, cioè: apriti”. E accade il miracolo sperato. Viene premiata la fede di coloro che glielo hanno consegnato, accompagnandolo, e il sordomuto, finalmente, ci sente e può parlare.
Tutte le nostre chiusure, i nostri silenzi dinanzi a colui che ci chiama in intimità si dissolvono. Forse non portiamo le ferite del mutismo e della sordità scritte sulle nostre membra, ama, di sicuro, ogni volta che non sentiamo il grido del povero, dell’escluso; ogni volta che non interveniamo dinanzi alle ingiustizie, ai soprusi siamo sordi e muti anche noi. Davvero avremmo bisogno d’essere toccati da Dio per sciogliere i nodi della nostra lingua e dischiudere le sordità nelle quali ci immergiamo. Non possiamo ignorare, far finta di niente, passare dinanzi alle necessità degli altri senza interpellarci, senza stimolarci ad averne compassione. È davvero l’indifferenza il male peggiore, cancerogeno, della vita societaria di oggi. “La chiesa – afferma papa Francesco – sia un’isola di misericordia nel mare dell’indifferenza”. Quando l’indifferenza soffre la mattia della globalizzazione occorre spezzarla, guarirla con la medicina della fraternità misericordiosa. Avere il cuore verso il misero significa vedere i disagi, sentire le grida di aiuto e denunciare gli stati di miseria.
“Effatà, cioè apriti” dobbiamo gridare al nostro cuore, alle nostre labbra e ai nostri orecchi. Non solo per percepire ciò che ci diletta, ci piace, ci attira, ma anche tutto ciò che il mare dell’indifferenza fa spiaggiare sui litorali delle nostre esistenze. È tempo di svegliarci, agire, sporcarci le mani per aiutare, soccorrere. Diventare isole di fraterno approdo nel mare tempestoso dell’indifferenza.