In un momento in cui la libertà sembra essere quella di sparare alzo zero su tutto e su tutti, questa rilettura in tv è una dimostrazione di come si possa fare spettacolo vero senza scadere nella ricerca di consensi costi quel che costi, facendo leva solo sulla propria arte e sulla fedeltà a contenuti veri dopo tremila e passa anni.
Nonostante le premesse, i Dieci comandamenti di Benigni hanno convinto, almeno la prima delle due serate dal Palastudio di Cinecittà. Le “premesse” erano la televisione, l’attualità romana, il tempo natalizio, la facile ironia. Bene, in uno spettacolo si tratta di scegliere i tempi, e Benigni, che esperienza ne ha da vendere, ha scelto di ammonticchiare tutto il “resto”, tutto il “nonostante” all’inizio, perché sa bene che è in genere la seconda parte quella che rimane di più impressa nello spettatore. E quindi ecco il riferimento alla città che lo ospita, che pur rimanendo “la città più bella del mondo” sta assistendo alla presenza di strane luci di natale sul tetto di alcune macchine, con chiara allusione al profluvio delle auto della polizia che hanno molto popolato Roma per l’affare “mondo di mezzo”.
Offerte alla benevolenza del pubblico romano, un po’ frastornato dalle cronache, una serie di omaggi di mestiere, come ad alleviare la pillola un po’ indigesta, ecco arrivare alla parte vera. Ed è stata una bella parte. Un po’ perché la scena era assolutamente sobria, senza nessuna ricerca dell’effetto, con spettatori, proscenio, attore leggìo, né effetti di luci, né trucchi elettronici, un po’ perché la parte medesima ha preso per mano l’artista, e lo ha portato forse un po’ più in là di dove lui stesso si sarebbe aspettato, soprattutto quando, parlando del comandamento “Ricorda il giorno del sabato per santificarlo”, ha aperto uno scenario inaspettato. Benigni ha messo in scena un Dio rivoluzionario, in anticipo di tremila anni sul comunismo (e questo, forse i lettori lo ricorderanno, è stato sostenuto recentemente da Sir a proposito delle accuse di comunismo a Papa Francesco), che chiede con forza di riposare e far riposare servi, animali, piante. L’amore, ha detto Benigni, non è un sentimento solo di poeti, ma un comando che arriva da Dio, sentito da Dio stesso. Il Dio di Benigni è un Dio che non solo si compiace del proprio lavoro, ma che vuole che l’uomo faccia altrettanto, e gli dice “fermati un attimo, guarda che belle cose hai fatto, questa è la felicità”.
Forse l’attore toscano non lo sa, ma quando ha parlato della bellezza del riposo di Dio, non ha fatto altro che ricalcare un passo di uno stupendo romanzo di Chesterton, “L’uomo che fu giovedì” nel quale il malfattore rivela la sua vera identità divina con le parole “Io sono il giorno del riposo”.
Conosca o no lo scrittore inglese, Benigni mostra però il lato profondo della sua arte, che si è abbeverata non solo alle acque bibliche, ma anche a quelle dei racconti chassidici, dei poeti, degli artisti, degli scrittori che hanno compreso l’inquietante mistero di una creazione narrata in modo arcaico, ma che allude a verità che solo oggi iniziano ad essere riscoperte.
Poesia, arte, racconto, ma anche scienza, perché a qualcuno non è sfuggito quel discreto accenno alle cose che esistono ma non si vedono, che non si possono spiegare con umane parole (Dio sceglie un balbuziente come Mosè, nota Benigni, mica un fluente tribuno), al “frastuono della creazione” che è destinato a “sfociare nel silenzio”, che rimanda a tanta fisica moderna, a Einstein, a Heisenberg, al principio di indeterminazione che mette in crisi tante certezze deterministiche dell’Ottocento.
Anche quando parla del primo comandamento, “Io sono il Signore Dio tuo”, Benigni tocca corde sensibili, perché accenna al sostrato amoroso che sembra accennare alla gelosia, e che è invece una indicazione della necessità della legge, la sola cosa che rende libero un popolo perché lo salva dalle pulsioni distruttrici.
Ma soprattutto parla a noi viaggiatori del terzo millennio chiedendoci di non avere altri idoli, che non sono dèi antichi, ma divinità fatte di denaro, potere, sesso, ingordigia. E ancora attuale è stato il riferimento al “Non nominare il nome di Dio invano”: Benigni ci vede giustamente l’attacco contro quelli che usano il Dio dell’amore per uccidere e per odiare, e siamo all’oggi, e però il suo generoso lasciarsi andare lo ha portato a delle non verità, perché non è vero che quasi tutte le guerre sono state combattute per motivi religiosi: è un ritornello che non ha nessun fondamento, perché allora si dovrebbe dimostrare la genesi religiosa dei milioni di morti della prima e seconda guerra mondiale, della guerra dei Cento anni, della resistenza dei cattolici irlandesi, che, come tutti sanno, non era un problema di crociata religiosa, ma di indipendenza di una nazione che voleva essere libera.
Benigni insomma non ha giocato sul grottesco, sull’ironia pesante, sul turpiloquio, è entrato in punta di piedi in una casa che non era la sua, come per il toscano Dante, ed è stato un ospite corretto, talvolta commosso. In un momento in cui la libertà sembra essere quella di sparare alzo zero su tutto e su tutti, questa è una dimostrazione di come si possa fare spettacolo vero senza scadere nella ricerca di consensi costi quel che costi, facendo leva solo sulla propria arte e sulla fedeltà a contenuti veri dopo tremila e passa anni.