II Domenica del Tempo Ordinario
Dio si fa uccidere perché nessuno uccida più
(Isaia 49, 3.5-6; 1 Corinzi 1, 1-3; Giovanni 1,29-34)
Ascoltiamo il Vangelo:
“In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».
Anche questa domenica ci dona di poter riflettere sul dono del battesimo. Ancora una volta è Gesù stesso che, avvicinandosi, e, mettendosi in fila per ricevere il battesimo di conversione da Giovanni, offre l’opportunità di ripensare e di riappropriarci del nostro battesimo.
Si sa che il battesimo ricevuto da Gesù era un gesto penitenziale, un rito a cui si sottoponevano tutti coloro che intendevano iniziare un percorso di conversione e lui non ne aveva bisogno. Il suo immergersi nel fiume Giordano è solo il segno di ciò che sarà il battesimo da lui procurato per la salvezza di tutti gli uomini.
Giovanni stesso lo dice: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”. Colui che cancellerà il debito del peccato, colui che volontariamente si è fatto peccato, colui che ha subito le conseguenze del peccato. Immolato, sacrificato per il bene dell’umanità. Nella tradizione ebraica c’era l’usanza, per liberarsi dal peccato, di infliggerlo, scaricarlo su un animale che diventando immondo veniva abbandonato a morire nel deserto. Solo. Sbranato.
Profeticamente Giovanni indica in Gesù colui che si è addossato tutti i peccati di tutti gli uomini. Il vero agnello immolato che cancella la colpa. Inaudito. Dio si sacrifica per l’uomo. Non il contrario. In tutte le religioni è l’uomo che sacrifica in favore di Dio vittime animali e talvolta, purtroppo anche umane. In questo caso tutto si capovolge. È Dio che sacrifica sé stesso per l’uomo.
Dio non è placato dalla morte o dall’immolazione del peccatore, ma dalla vita di suo Figlio che viene sacrificato in favore dell’uomo. Una volta issato sul legno della croce, patibolo sul quale muore, dal suo fianco squarciato e dal suo costato non escono rabbia, vendetta, odio ma sangue ed acqua. Sangue d’amore, acqua di vita. Già nell’intimità della sua ultima cena ho dimostrato d’essere capace si servire, di lavare i piedi. Già in quella notte, quando nel cuore di Giuda c’era il buio assoluto, la sete di guadagno e il tradimento, lui “prese il pane”. Non oppose resistenza, non rimproverò, non rivendicò, ma diede gesti di amicizia di concordia di condivisione, di fraternità. Era venuto per questo e, anche se difficile, aveva pregato il padre di allontanare da lui questo calice; tuttavia, chiese che si compisse la sua volontà.
Ha umiliato la violenza. Ha smascherato l’odio. Ha illuminato la notte. Ha opposto l’amore alla sterilità. Nel deserto del cuore umano ha seminato la freschezza del suo donarsi. Perciò è Dio. Ha fatto ciò che nessun uomo ha mai fatto. Ha portato a termine ciò che è impensabile ed improponibile per Dio, eppure lui porta a compimento ciò che Dio non sa fare, non può fare: morire, immolarsi. Ecco l’onnipotenza di Dio. Nel mansueto e muto agnello che si dona, si sacrifica per tutti. Colui che era innocente è diventato peccatore perché i peccatori fossero ricostituiti nell’innocenza perduta. “Doveva essere l’ultimo ucciso, perché nessuno fosse più ucciso” (Ermes Ronchi).
C’è solo un modo per vincere il male, per cancellare il peccato: il bene e l’amore. “Dove abbondò il peccato sovrabbonda la grazia” (Romani 5,20). Per vincere la notte occorre il giorno. Per vincere l’aridità del terreno occorre seminare ugualmente. Per sconfiggere la vendetta occorre armarsi di amore porgendo l’altra guancia, per vincere la zizzania occorre prendersi cura del buon grano.
Di questo amore, a questa dimensione, con queste caratteristiche noi, oggi, siamo chiamati ad essere braccia, gambe, labbra che donano, camminano, proclamano. In qualche modo dobbiamo essere agnelli che si immolano per il bene degli altri. Come colui che si è immolato per noi. “Amatevi gli uni gli altri come io ho vi ho amato” (Giovanni 15, 9-17).