Viene di sua spontanea volontà verso Gerusalemme.
Is 50, 4-7; Fil 2, 6-11; Mt 26, 14-27,66
Dio mio, Dio Mio, perché mi hai abbandonato?
La memoria di un uomo non è mai indistinta o impersonale. Ogni capacità di ricordo comporta inevitabilmente una dimensione emotiva e persino sensibile. Ad esempio, quando cerchiamo di ricordare un posto precedentemente visitato, si ha quasi la sensazione di percepirne l’odore e i suoni che a suo tempo lo caratterizzarono.
La Liturgia della Parola della Domenica delle Palme è un po’ come un ricordo, tuttavia ben più vivido e preciso. Questo evento, infatti, non può mai essere inteso come una sterile presa d’atto di avvenimenti susseguitisi tra loro, bensì come una sorta di approdo sicuro capace di celare al suo interno molto di più. La narrazione evangelica, pertanto, diviene capiente. Essa è capace da par suo di suscitare emozioni, immagini, ricordi e partecipazione commossa; ed è proprio tale coinvolgimento che, allo stesso tempo, permette di generare una contemplazione attiva degli avvenimenti che diedero inizio alle vicende pasquali di Gesù.
La liturgia dell’Ingresso messianico a Gerusalemme è complessa e caratteristica: la benedizione dei rami di ulivo ne segna l’incipit, dando poi seguito alla tradizione di portarli con sé a casa. L’utilizzo simbolico di tale gesto non è affatto magico o di superstizione: non è un porta fortuna! È invece il segno che ci dona l’abilità di generare un ricordo vivo e vero, vale a dire il “far memoria” di un avvenimento, una sua “ripresentazione” e non una sua “rappresentazione”.
Vedendo i rami di ulivo siamo portati a ritornare al testo, a ricordare gli eventi e a meditarne i significati. Marco nel suo vangelo esprime con fine efficacia il paradosso del cristianesimo. La morte di Gesù alla stregua di un malfattore è il momento più alto del riconoscimento della sua divinità: un centurione pagano «che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio”» (Mc 15, 40). Cristo diventa così il “profeta muto” che annuncia con il suo silenzio una salvezza dalle ampie vedute e non circoscritta a pochi eletti. Il riconoscimento del centurione è l’immagine del popolo pagano che identifica – più della comunità stessa – l’efficacia della grazia offerta dalla morte di Cristo.
In Marco gli avvenimenti sono tali da costringere l’uditore ad abbattere tutte le proiezioni idolatriche appartenenti al delirio di onnipotenza. Queste sono definitivamente sconfessate e, le divagazioni fondate sul potere, sulla forza e sulla violenza, finalmente infrante.
La visione del Cristo crocifisso diviene un forte appello alla contemplazione. Un richiamo energico che conduce l’uomo a entrare con consapevolezza nella storia della Settimana Santa. La vocazione dell’uomo pasquale, allora, si inerpica per vie affatto facili, ma tanto redditizie da guadagnare il cielo. Il cristiano, in conclusione, diviene un po’ come quella donna che lavò i piedi di Gesù con olio profumato e che li asciugò con i suoi capelli: uomo di gratuità, di umiltà e di speranza.
Giuseppe Gravante