La mediazione come criterio essenziale del discepolato
1 Sam 3, 3b-10.19; 1Cor 6, 13c-15a.17-20; Gv 1, 35-42
Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà
Con il trascorrere del tempo, è venuta costantemente a mancare quella che una volta era la figura del mediatore. Ad esempio, basti pensare alle segreterie universitarie o scolastiche in genere: il segretario – che dovrebbe essere il ponte tra lo studente e l’istituzione – smarrisce la precipuità del prorio ruolo conciliativo, divenendo sempre più un semplice burocrate. Lo stesso, per estensione, dicasi dei professori, dei preti e non ultimo dei genitori, la cui decadenza istituzionale facilita il successivo sgretolamento di quei punti di riferimento da sempre ritenuti imprescindibili e ai quali, purtroppo, si riconduce persino l’autorità.
A tale problematicità, poi, fa anche capo il crollo della consapevolezza di fede umana; essa, infatti, è sempre un’esperienza mediata, in molti modi e necessariamente. La fede cristiana, allora, sorge proprio sulle fondamenta dell’esperienza primordiale del Cristo avuta dai discepoli. La sua mediazione è affidata alla tradizione, alla comunità credente nella quale ogni battezzato ha mosso i suoi primi passi.
La Parola di Dio di questa II domenica del tempo per annum, ricalibra proprio la struttura mediata della fede. Samuele è giovane e non ha ancora fatto un’esperienza diretta e personale di Dio. Egli si trova nel tempio, ode una voce nella notte, ma non è in grado di riconoscerne l’origine: la Parola di Dio rimane così incompresa. Ancora nell’oscurità della notte, Samuele, si rivolge a Eli e sarà proprio quest’ultimo a riconoscere la natura teologale di quell’esperienza: «Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovane. Eli disse a Samuele: “Vattene a dormire e, se ti chiamerà, dirai: “parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”» ( 1 Sam 3, 8-9).
Eli, in tal caso, è l’incarnazione del vero padre spirituale: indica, ma non si sostituisce a Samuele. Il mediatore dell’esperienza spirituale non trattiene a sé colui al quale fornisce gli strumenti della comprensione, bensì, suscita l’incontro con Dio a cominciare dall’assunzione di una responsabilità specifica e personale.
A lui, si aggiunge una seconda figura di mediazione, anch’essa presentata dalle letture odierne: quella di Giovanni il Battista. Egli, come Eli, non trattiene a sé i suoi discepoli, ma li indirizza verso colui del quale dovranno farsi seguaci: «fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio!”. E i suoi discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù» (Gv 1, 36-37).
I discepoli hanno ricevuto da Giovanni la chiave interpretativa fondamentale, possono ora mettersi in pellegrinaggio e seguire Gesù liberamente e personalmente. A partire da questo momento essi sono anche in grado di interpretare l’interrogativo posto loro da Gesù: «che cosa cercate?» (Gv 1, 38). La risposta che ne daranno si produce in un ulteriore interrogativo: «dove dimori?» (Gv 1, 38). La sequela, allora, sorge dalla relazione intima con il Signore; egli va cercato e trovato, seguito e non perso di vista. In tal senso, lo stesso Andrea, uno dei due discepoli, diventa mediatore. La sua esperienza testimonia a Pietro la ricchezza di un evento: «“Abbiamo trovato il Messia” – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù» (Gv 1, 41-42). Da qui in poi, per i due discepoli così per tutti i credenti, incomincia il cammino personale e indelegabile, al quale nessuno può sostituirsi e che diventa, al tempo stesso, criterio essenziale per dichiararsi discepoli.