Tommaso: il gemello dell’umanità.
di Giuseppe Gravante
At 2, 42-47; 1Pt 1, 3-9; Gv 20, 19-31
Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre.
Il vangelo di questa II domenica di Pasqua – tratto dal Vangelo di Giovanni – propone all’ascolto l’episodio dell’apparizione di Gesù all’apostolo Tommaso. Probabilmente, è una delle immagini più conosciute dell’intero vangelo; tanto che, anche le successive interpretazioni esegetico-teologiche, si sono molto concentrate su di esso, facendo di Tommaso un incredulo, un dubbioso, un resistente alla fede.
L’apostolo, assente durante la prima manifestazione del risorto, avanza la propria richiesta: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, non crederò» (Gv 20, 25). Il problema di Tommaso, allora, è molto serio e di complessa peculiarità.
Il vero problema, in realtà, consiste nel “male”, scandalo arduo per l’esistenza umana. Tommaso ne aveva visto tutta la radicalità e potenza nell’evento della morte del maestro: e se quel risorto che i suoi amici annunciano, non fosse lo stesso crocifisso pochi giorni prima? Tutto ciò che essi affermano, dunque, non avrebbe valore: il risorto deve essere il crocifisso, altrimenti la risurrezione sarebbe la “copertura del furto di un corpo” o il “ricordo di un cadavere”.
«Otto giorni dopo» i discepoli sono ancora insieme, questa volta c’è anche Tommaso. Il maestro si manifesta di nuovo mostrando i segni della passione. Da una parte, allora, la risposta alla richiesta dell’apostolo; dall’altra, lo scandalo del male: Gesù porta impressi nel corpo glorioso i segni della passione. L’enigma del male, lascia sempre memoria e traccia di sé, anche in Dio! Dio stesso non ha spiegato con argomentazioni razionali il male, lo ha affrontato, trapassato e vinto.
Di fronte alla manifestazione di Gesù, Tommaso professa la sua fede: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20, 28). Parole che suonano come una confessione di fede, un’invocazione nonché la più sublime delle preghiere. Ma a questa mèta Tommaso giunge attraverso il travaglio dell’inquietudine, della ricerca e della domanda, anche ardita. Il percorso dell’apostolo è una sfida ai percorsi troppo facili e superficiali. Tommaso è il discepolo che ci è più vicino, anche nel monito di Gesù «non essere più incredulo, ma credente» (1 Gv 20, 27). Tommaso è il gemello dell’umanità. La sua inquietudine rischia di farlo scivolare nell’incredulità, ma tutta la sua vicenda conduce a Gesù, a proclamare il paradosso di una nuova beatitudine: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20, 29).
Da questa fede profonda nasce uno stile cristiano che rende la comunità soggetto evangelizzante. La missionarietà, per la Chiesa, è fedeltà al mandato del suo Signore. L’inizio del vangelo di oggi descrive una comunità di apostoli pavidi e sconfortati, rinchiusi «per il timore dei giudei» (Gv 20, 19); ma non è necessario essere perseguitati per cedere alla tentazione di nascondersi: basta essere una comunità di autoreferenziali, che prestano attenzione solo alla propria sopravvivenza e che perdono il coraggio di usare linguaggi nuovi. Il vangelo, dunque, insegna a prendere il largo nell’oceano della fede, ad abbandonare l’incredulità e compiere quel salto di qualità che vede le braccia di Dio pronte ad accoglierci.