Una cena mai stata ultima.
At 3, 13-15.17-19; 1Gv 2, 1-5a; Lc 24, 35-48
Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto.
L’ultimo capitolo del Vangelo di Luca, il XXIV, è dedicato interamente alle vicende post-pasquali della comunità. La pericope proposta dalla liturgia di questa III Domenica di Pasqua, infatti, si concentra nella narrazione degli avvenimenti occorsi dopo il ritorno dei discepoli dalla città di Emmaus a Gerusalemme. I due “viandanti”, che incontrarono e riconobbero il Risorto proprio sulla via di Emmaus, si ricongiungono finalmente alla comunità, assieme alla quale, odono e professano il comune credo: «davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone» (Lc 24, 34). A cominciare da questa professione – ulteriore segno di “ricomposizione” dell’unità apostolica – anche i due pellegrini di Emmaus offrono il loro contributo: narrano quella che fu la loro esperienza; si soffermano particolarmente nel descrivere il “come” del loro straordinario incontro e favoriscono inoltre la conseguente crescita spirituale della comunità. La comunità post-pasquale, dunque, letteralmente abbacinata da tale notizia, diventa segno evidente, concreto esempio di ciò che comporti essere fedeli alla gioia della Risurrezione. Essa, ancora oggi, insegna a ciascuno di noi il coraggio di confessarci Figli di Dio nonché eredi della Risurrezione; ci dona le “armi spirituali” per combattere la buona battaglia ed eludere il rischio di una timidezza d’animo.
Mentre i discepoli, nella comunione ecclesiale, condividono la propria esperienza del Cristo, egli stesso si presenta a loro: «stette in mezzo a loro» (Lc 24, 36). L’asciuttezza lessicale adottata da Luca, assume un’evidente funzione teologica: l’epifania post-pasquale del Signore non è un semplice miracolo! La sua, al contrario, è presenza efficace, performante, ordinaria e duratura. Lo stare del Risorto s’intreccia profondamente all’animo ridondante e confuso dei discepoli, essi balenano tra l’essere «sconvolti e pieni di paura» (Lc 24, 37) e un atteggiamento di ridanciana esuberanza: «per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore» (Lc 24, 41). La fede allora – così ci insegna la comunità discepolare – non è mera “visione”, bensì decodifica e attuazione pratica di quest’ultima.
Di fronte al dubbio, al combattimento interiore dei discepoli, il Maestro redivivo chiede con disarmante naturalezza: «avete qui qualcosa da mangiare?» (Lc 24, 41 ). Tale proposta di condivisione del cibo intende chiaramente ribadire ed evidenziare la continuità esistente tra il Gesù storico e il Cristo risorto. Il secondo mangia con i discepoli, rinnovando la prassi del primo di condividere la mensa con tutti, inclusi i peccatori. In aggiunta, in tale “mangiare con” è possibile rivivere l’esperienza dell’ultima cena, antesignana di questi eventi e pertanto non più ultima (cena).
Le vicende di Gesù, allora, hanno l’intento di rendere comprensibile il piano di salvezza pensato dal Padre, queste rendono accessibile l’Amore preesistente e preordinante di Dio; lo rendono, infine, oblativo, “pratico” e misericordioso.
In concreto, il Vangelo ci insegna che oggi è concepibile essere testimoni solo quando l’attestazione di fede si fonda e si ciba della Parola di Dio. Il pericolo, infatti, quando tutto ciò viene a mancare, è quello di far ombra allo splendore del risorto e di proporre noi stessi come maestri.
Giuseppe Gravante