Solo entrando nel recinto del Regno si può essere liberi.
di Giuseppe Gravante, IV Domenica di Pasqua – Anno A – 3 maggio 2020
At 2, 14a.36-41; 1Pt 2, 20b-25; Gv 10, 1-10
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
La grande sfida di oggi per ogni credente, è l’incredulità; la domanda più inflazionata, infatti, è quella che pone dubbi sull’esistenza di Dio: «e se non esistesse?». Talvolta, tale interrogativo, assume tonalità estreme, quasi dolorose; altre, meno violente e irrequiete. In ogni modo, l’incredulità rimane una frontiera esperienziale che sicuramente non può essere ignorata.
Frequentemente, però, tale situazione di vicissitudine, può anche diventare atrio di positività; infatti, è dal nostro modo di “pensare” Dio che deriva il giusto atteggiamento di porsi di fronte a lui, al fine di produrre una fede autentica. Ogni credente dovrebbe dunque, come atto di consapevolezza, domandarsi: «Chi è il mio Dio?»; «In chi ripongo la mia speranza?». Obbedire alle esigenze del Vangelo, significa prendere sul serio le parole di san Pietro: «Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (At 2, 36).
Di fronte a tali affermazioni, però, compare sempre la tentazione di affermare: «Ma io non ho crocifisso Gesù Cristo. Anzi, fossi stato lì…». Gesù, però, non è stato crocifisso per il peccato di alcuni, ma per quello di tutti, di ogni tempo e di ogni luogo. Non ci si può pertanto, sottrarre alla solidarietà con tutti gli uomini: se si vuole essere solidali nella salvezza bisogna riconoscere anche la propria condizione di peccato. Fatto questo passo di onestà intellettuale e morale, si può quindi professare la fede in quel Gesù costituito Signore e Cristo.
La sfida dell’incredulità si intreccia inestricabilmente con l’atteggiamento di affidamento, di abbandono e di fiducia in Dio. Tutto ciò trova conferma nel discorso di Gesù in occasione della guarigione del cieco nato, collocato peraltro in un contesto di forte polemica con i capi religiosi dei giudei. Gesù pronuncia una distinta sentenza di condanna nei confronti dei Giudei ed è proprio qui che Giovanni colloca la parabola del Buon Pastore.
Il Buon Pastore conosce, chiama, conduce e cammina davanti alle sue pecore ed esse lo seguono. La similitudine, che Gesù attinge dall’esperienza quotidiana dei suoi uditori, esprime la relazione esistente fra il pastore e il suo gregge. Una relazione affettiva di reciproca conoscenza, di appartenenza e di responsabilità; una relazione che dice come Gesù sia guida per i credenti.
La tenerezza dell’accudimento comunicata dal Buon Pastore è un’immagine impegnativa: comporta una relazione esclusiva con il Pastore da parte del gregge; invoca una relazione nuova che, secondo le parole del vangelo, accolga Cristo come “porta”. Gesù è la rivelazione del Padre, è la mediazione unica fra lui e l’umanità ed è anche l’unica guida verso la libertà. Solo entrando nel recinto del Regno si può essere liberi.
Gesù, infine, è il messia pastore. La salvezza che dona, passa per la croce; essa è lo strumento di manifattura divina attraverso il quale l’uomo impara il mestiere della vita e si guadagna il salario della salvezza. «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10, 10-11).