Vedere Dio con gli occhi di chi già l’osserva!
Ap 7, 2-4.9-14; 1Gv 3, 1-3; Mt 5, 1-12a
Ecco la generazione che cerca il tuo volto, Signore.
Ogni anno, quando giunge il momento di celebrare la Solennità di Tutti i Santi, inevitabilmente ci si deve relazionare con persone che non ancora ne comprendono il significato e l’utilità. Allora, è necessario chiedersi, chi sono i santi? Sono forse quelli canonizzati, quelli che compaiono nel calendario? Evidentemente no, o meglio, non solo.
La Chiesa ci invita a pregare in questo giorno tutti coloro che sono morti e che godono della comunione con Dio, della sua visione beatifica pur non essendo riconosciuti pubblicamente come “santi”. Per intenderci, anche i nostri amici, parenti, conoscenti non più vivi, ma accolti dalla misericordia del Padre.
Proprio per questo motivo, la solennità del I novembre si congiunge strettamente a quella dei defunti (2 novembre). In questi due giorni, però, nonostante l’epifania di un autentico dittico della vita eterna, paradossalmente aleggia un clima di frustrazione e tristezza. Se non celebrassimo i Santi però, che senso avrebbe commemorare i defunti? Privi dell’orizzonte teologico della santità la morte corrisponderebbe al nulla e, pertanto, che senso avrebbe pregare per i nostri cari defunti?
Queste ragioni testimoniano l’esistenza di un piano particolare, di un orizzonte che spinge la festa dei Santi a nutrirsi e colmarsi di tonalità gioiose e brillanti. È una celebrazione della vita che trionfa sulla morte. Quella stessa morte che nelle sue sfaccettature ammorba le speranze della gioia futura. Per i credenti allora, celebrare i Santi, consiste nel porre in atto una vera e propria confessio fidei, una dichiarazione inequivocabile di speranza: come Gesù Cristo, anche noi, saremo risuscitati dai morti!
Ma oggi, è ancora opportuno parlare di santità? La santità è proponibile? E in quali termini? Ogni uomo, nel corso della sua vita, aspira più o meno fortemente alla propria autorealizzazione; tale desiderio, infatti, dimostra il dinamismo dell’uomo stesso, ma anche la sua “passione” in costante ricerca degli equilibri che regolano tutte le dimensioni della stessa umanità. Non ci può essere realizzazione se si valorizza solo la sfera corporea, così come non c’è realizzazione nella sola affettività o nella spiritualità. La vita allora, coglie nel loro congiungersi, uno straordinario spiraglio di infinito, ne fa il segno di un pellegrinaggio realizzato, trasfigurandone la precarietà e l’incertezza.
In tal senso, la vita cristiana, prende le mosse e giunge ai suoi stati finali proprio in queste fasi, vitalizza i suoi “sensi” in questo dinamismo essenziale. Il battesimo ci associa alla santità forgiata nella e dalla morte di Cristo. Questa dimensione si completa a sua volta, solo negli spazi illimitati dell’amore del Padre. La speranza che ne viene generata spinge allora, ogni essere umano, a purificare se stesso, a perfezionarsi “in vista della Visione”.
La grazia della visio offerta da Dio a tutti gli uomini, richiede in conclusione, una costante manovra “dischiusiva” verso la sua opera salvifica. La povertà di spirito, come ricorda la beatitudine matteana (Mt 5, 1), costituisce in sé, quella chiave d’accesso che palesa i tesori del Padre e i palazzi d’avorio della vita celeste.
Giuseppe Gravante